Lirica e sinfonica verso la fase 2
giovedì 16 aprile 2020
LA VALUTAZIONE DEI RISCHI NON BASTA PIU’
“Pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato”
Papa Francesco, preghiera speciale per l’emergenza del coronavirus.
Gli attuali strumenti di
valutazione e l’importanza della soggettività: limiti e opportunità
Fernand Leger, Builders, 1951. (Mosca, Pushkin
Museum)
In tutte le aziende la valutazione dei rischi è l’elemento cardine del sistema di prevenzione e consiste in un procedimento di analisi finalizzato
all’individuazione di tutti i potenziali fattori di rischio presenti. Questa
valutazione è oggi lo strumento che permette al datore di lavoro di individuare
le misure di prevenzione e protezione e pianificarne l'attuazione, il
miglioramento ed il controllo. Per far questo è necessario partire dall’individuare
le mansioni che sottopongono alcuni gruppi di lavoratori a rischi specifici e
che richiedono misure specifiche e particolari. Una corretta metodologia
adottata nel processo di valutazione
non può però prescindere dalla stima dei rischi legati
al fattore umano. Ai corsi di formazione sulla sicurezza abbiamo
imparato che il rischio (R) è dato dal prodotto tra probabilità (P) e danno
(D). Abbiamo inoltre imparato che la prevenzione ha priorità sulla protezione e
che con essa andiamo, o cerchiamo, di portare il rischio a livelli accettabili.
La protezione la attuiamo invece per limitare i danni dai rischi residui che
non siamo riusciti ad eliminare. Visto che dalla formula risulta assente il
comportamento (la soggettività) del lavoratore sarà necessario valutarlo in
separata sede in quanto esso non dipende dalla realtà oggettiva, ma
dall’interpretazione soggettiva di una determinata situazione. Il
rischio è strettamente connesso alla soggettività e pertanto i concetti
legati alla percezione soggettiva del rischio, devono essere il punto di
partenza di ogni intervento di prevenzione. Resta inteso che esistono una serie
di fattori favorenti di tipo strutturale e organizzativo: aspetti che la
valutazione dei rischi deve necessariamente considerare. Esistono diverse
tecniche che trattano il tema dell’analisi dell’affidabilità umana (HRA) e queste sono state
sviluppate per fornire valori di probabilità di errore, connessi ai compiti
degli operatori, da inserire nel più ampio contesto di valutazione di rischio
del sistema. Da queste analisi i lavoratori sono stati spesso esclusi se non
per una formale consultazione. La sfida da cogliere sta nel loro pieno
coinvolgimento per ridisegnare nuovi processi decisionali.
Quanto le influenze esterne condizionano le nostre decisioni
La
percezione del rischio deriva dal processo interpretativo che si sviluppa
dall’utilizzo di scorciatoie mentali e si rende necessario per economizzare i
tempi di risposta comportamentale davanti alle diverse situazioni. Ogni
decisione viene presa in funzione degli elementi che il lavoratore percepisce
e, la percezione, non solo precede la conoscenza ma ne resta scollegata anche
successivamente. Esistono vari aspetti che influenzano la percezione del
rischio tra cui il desiderio di accettazione verso il gruppo, che ci porta a
vedere il rischio in maniera distorta. Si tratta di una serie di distorsioni
nel giudizio e nella decisione, a cui i lavoratori sono soggetti operando in
gruppo, in larga misura orientate dalla tendenza a conservare la coesione e
l’armonia interna del gruppo stesso. Questo senso di appartenenza può delle
volte risultare limitante in quanto, a causa del nostro istinto tribale, siamo
portati a sopravvalutare le capacità ed
il valore del nostro gruppo a scapito di altri gruppi o altre persone che in
realtà non conosciamo. Altro aspetto non secondario è quello della situazione
contrattuale che a sua volta non può che influenzare il processo decisionale del
lavoratore davanti al rischio. Questo aspetto è stato largamente affrontato dal
sociologo Luciano Gallino. Secondo Gallino, la frammentazione pianificata dei
processi produttivi in imprese e squadre di lavoro sempre più piccole,
collegate da lunghe catene di esternalizzazioni, disincentiva la formazione
alla sicurezza e, in molti casi, la rende tecnicamente inattuabile. Allo stesso
effetto operano i contratti di lavoro atipici, in specie quelli con una durata
di pochi mesi o addirittura giorni. In questo caso, alle carenze formative si
aggiungono i costi della prevenzione e della protezione degli infortuni che
molte imprese cercano di limitare il più possibile[1]. Le aziende che hanno
abbandonato il concetto di stabilità lavorativa devono trovare strumenti di
implementazione alla valutazione dei rischi che ad oggi non risulta più
sufficiente. Per rendere
il lavoro più sicuro è necessario innovare l’organizzazione del lavoro,
ridisegnarne i processi e puntare al pieno coinvolgimento dei lavoratori. Se
davvero vogliamo cambiare marcia è necessario che l’attuale modello di
leadership, ancorato prevalentemente ad un sistema burocratico e direttivo,
passi ad un modello partecipativo che valorizzi il patrimonio di esperienze di
ogni lavoratore a partire da quelli più anziani. I quadri direttivi aziendali
devono creare le condizioni per un supporto autorevole sia nel settore
tecnologico che in quello delle risorse umane mettendo in atto procedure
concordate con i lavoratori e mai calate dall’alto.
[1] [1]Luciano
Gallino, La Repubblica, 27 novembre 2006, p.1. Cfr. Luciano Gallino, Il
lavoro non è una merce.
L’utilizzo delle euristiche ci fa attribuire maggior peso a quello che crediamo di vedere a scapito di quello che vediamo realmente. Il punto di partenza su cui incentrare la formazione dei lavoratori dovrebbe partire da questa consapevolezza.
Il
termine “euristica”, deriva dal greco heurískein (trovare) e rappresenta l’abilità
acquisita dal cervello umano nel corso dell’evoluzione e risultata fondamentale
per la sopravvivenza dell’uomo. I processi
decisionali, richiedendo tempo e sforzi cognitivi, vengono attuati con l’utilizzo
delle euristiche, cioè
quelle strategie che consentono di prendere una decisione nonostante la
complessità della situazione e la limitatezza delle informazioni. Le euristiche
sono scorciatoie mentali che derivano dall’esperienza personale e permettono di
evitare tutte le fasi del processo decisionale, giungendo più velocemente ad
una decisione (Simon 1976). Herbert Simon, premio Nobel per l’economia nel 1986, fu tra i primi ad
osservare come l’uomo non vada sempre alla ricerca della soluzione ottimale ma
spesso effettua delle scelte soddisfacenti. Anche secondo Gerd Gigerenzer, psicologo
tedesco che ha studiato l'uso della razionalità limitata e dell'euristica nel
processo decisionale, ogni essere umano ha una “cassetta degli attrezzi” in cui
sono riposte le esperienze tramandate a livello genetico e che verranno
utilizzate automaticamente ogni volta che sarà necessario prendere una
decisione in condizioni di incertezza.
Tra le euristiche più
utilizzate troviamo quelle della disponibilità, rappresentatività e ancoraggio.
Nell’euristica della disponibilità i giudizi circa la
probabilità di un evento sono influenzati dalla facilità con cui possono essere
richiamati nella nostra mente casi analoghi. Nell’euristica della rappresentatività
i giudizi
di probabilità sono formulati sulla base di stereotipi e situazioni familiari. Nell’euristica dell’ancoraggio
tendiamo ad ancorare il nostro giudizio ad un valore iniziale che ci viene fornito
dall’esterno e questo valore andrà appunto ad influenzare la nostra decisione. Altro
aspetto non secondario, che entra in gioco nel momento in cui dobbiamo prendere
una decisione, è il punto di vista. Il
cambiamento di prospettiva può avere effetti assai
diversi sulle nostre decisioni, facendoci definire
in modo diverso dagli altri le modalità di approccio al rischio.
Ripartiamo
adesso dalle “scelte soddisfacenti” di cui parlava Simon per introdurre il tema
dei Bias cognitivi e cioè quei giudizi distorti che spesso ci portano a
conclusioni errate. Infatti, l’utilizzo delle scorciatoie non sempre conduce
alla decisione giusta ma a quella più veloce e soddisfacente, quella decisione che
richiede meno dispendio energetico. Gli esperti stimano che il nostro cervello sia soggetto a più di 180 distorsioni cognitive
che hanno lo scopo di ridurre la sovrabbondanza di informazione a cui siamo
esposti.
Il fattore umano nella
valutazione dei rischi
Charles Sheeler, Fugue, 1940. (Boston, Museum
of Fine Arts)
Il Legislatore dell’ Ottocento considerava l’infortunio
come un fattore inevitabile e si preoccupava soltanto di garantire un
risarcimento del danno erogato sotto forma di indennizzo. In questo periodo le
macchine erano prive delle più elementari misure di sicurezza e questo causava
un numero di vittime incredibile. Andando in tempi più recenti, pensiamo che
nel 1963 gli infortuni denunciati nei settori dell’industria, servizi e
agricoltura furono 1.577.352 di cui 4.644 mortali. Negli ultimi anni però
l’evoluzione tecnologica ha portato ad un decremento di incidenti dovuti a
guasti di natura tecnica grazie soprattutto a ridondanze e protezioni, che
hanno reso i sistemi sempre più affidabili. Tuttavia non è possibile parlare di
affidabilità di un sistema senza portare in conto la componente “lavoratore”,
il cui “tasso di guasto/errore” va a modificare i tassi di guasto dei
componenti con i quali interagisce. Le
stime concordano nell’attribuire agli errori commessi dall’uomo la
responsabilità nel 60-80% degli incidenti e per la restante parte a carenze
tecniche. Esistono in letteratura diversi studi che trattano il tema dell’affidabilità umana distinguendo
le cause degli errori in fattori interni ed esterni. Questi studi considerano i fattori
interni tutti gli eventi di natura tecnica o sistemica (dovuti ad esempio alle attrezzature di lavoro, materiali
utilizzati, luogo di lavoro, organizzazione del lavoro), che influenzano e
alterano le condizioni di lavoro e spingono gli operatori a comportamenti
erronei; i secondi, più difficili da prevedere poiché legati a caratteristiche soggettive,
sono quelli correlati alle condizioni psico-fisiche del lavoratore che, per
loro natura, non si prestano ad essere strutturati in modelli di comportamento
sistemico. Il modello di riferimento che ci aiuta nella comprensione del comportamento umano è quello postulato da Jens Rasmussen. Il suo lavoro[2] rappresenta uno dei
contributi più influenti nel campo della scienza della sicurezza, dell'errore
umano e della ricerca sugli incidenti nel corso dell'ultimo mezzo secolo. Rasmussen
distingue tre
tipologie di comportamento sostenendo che questi si acquisiscono in
sequenza e che non esistono comportamenti innati, ma questi derivano dalla
pratica in situazioni che all’inizio richiedevano impiego della conoscenza e
capacità di risolvere problemi. I suoi studi ci insegnano che la consapevolezza situazionale passa prima di
tutto attraverso un adeguato bagaglio di conoscenze e competenze del
lavoratore, che dovrà pertanto essere istruito su ogni fase lavorativa,
rimarcando il concetto di corretta procedura al momento dell’esecuzione di
mansioni ad alta probabilità di rischio, attraverso un’adeguata informazione e
formazione.
[2] Rasmussen J. Information
processing and human-machine interaction: An approach to cognitive engineering. Wiley; 1986
“La fallibilità è una
caratteristica dell’essere umano. Noi non possiamo cambiare l’essere umano, ma possiamo
cambiare le condizioni in cui gli esseri umani operano”
J. Reason,
professore di psicologia a Manchester, riprende la teoria di Rasmussen
elaborandola sotto il profilo cognitivo e comportamentale in relazione alle
varie tipologie di errore. I tecnici della sicurezza lo conoscono attraverso il
suo famoso modello dello Swiss Cheese. Secondo questo modello tutti gli ambienti di lavoro presentano una
serie di livelli di difesa (procedure), che offrono protezione contro le
conseguenze avverse di un errore; nonostante ciò, ogni livello di difesa
presenta delle imperfezioni che consentono il verificarsi del danno. Secondo Reason[3] i lavoratori spesso
sbagliano perché i sistemi, i compiti e i processi in cui lavorano sono
organizzati in maniera inadeguata e distingue due tipologie di errore: gli errori attivi, cioè quegli errori frutto di azioni o decisioni
pericolose commesse da coloro che vi sono in diretto contatto e gli errori latenti, determinati da azioni
o decisioni manageriali o da norme e modalità organizzative, che permangono nel
sistema diventando evidenti solo quando si combinano con altri fattori in grado
di romperne le difese. Reason ci insegna a non focalizzarci unicamente sull’errore
attivo ma a ricercare l’errore latente presente nel sistema superando la concezione che vede il
lavoratore potenzialmente libero di agire e di violare o meno le regole del
sistema. E’ necessario guardare all’interazione tra l’attore e il sistema per
capire le ragioni che lo hanno indotto a fare ciò che ha fatto. Con
una felice metafora evidenzia che “gli
atti insicuri sono come le zanzare. Puoi cercare di schiacciarle una ad una ma
ce ne saranno sempre altre che prenderanno il posto delle precedenti. L’unico
rimedio efficace è quello di prosciugare lo stagno nel quale esse si
moltiplicano”.
“Ho sempre fatto così e non mi
è mai successo niente”
Renato Guttuso, La Magona di
Piombino, 1950. (Collezione privata)
Questa frase, che molti miei
colleghi consulenti della sicurezza, hanno spesso sentito dire è frutto di uno
dei Bias più diffusi. L’ overconfidence è infatti la tendenza ad essere
fiduciosi della bontà delle proprie capacità e giudizi più di quanto effettivamente
sarebbe giustificato e anche questo è frutto di una non cultura della
sicurezza. Charles Vincent[4] definisce la cultura
della sicurezza come “il prodotto di schemi
di comportamento, competenze, attitudini e valori di un gruppo che determinano l’impegno, lo stile e il
livello di capacità dei programmi per la sicurezza e la salute
dell’organizzazione stessa”. Secondo Vincent, “le organizzazioni con una
cultura della sicurezza positiva sono caratterizzate da una comunicazione basata sulla reciproca stima, sulla percezione
condivisa dell’importanza della sicurezza e sulla fiducia nell’efficacia delle
misure preventive”. La cultura è sostanzialmente la condivisione di norme
e valori che identificano un'azienda e la differenziano da altre. Lo stesso
Berlinguer affermava che il lavoratore non deve essere soltanto oggetto della
ricerca ma ne deve diventare soggetto protagonista[5]. Ma se la cultura della
sicurezza è sostanzialmente la condivisione di valori e di comportamenti allora
bisogna presidiare questi valori. Le aziende devono far sì che i valori
dichiarati siano coerenti con i valori messi in pratica. Se il lavoratore operasse
sempre in condizioni organizzative, tecnologiche e ambientali adeguate
commetterebbe meno errori? Questa domanda è alla base dell’analisi proattiva, ossia
quell’approccio preventivo al
sistema che dovrebbe evitare eventi avversi, attraverso l’applicazione di
metodi e strumenti utilizzati per eliminarne le criticità. Molte delle ricerche più avanzate
delle scienze del comportamento, in particolare la behavior
based safety, riguardano proprio la possibilità di prevedere esattamente le
reazioni degli individui sottoposti a determinati stimoli e si propongono sia
di studiare un sistema aziendale, fino a capire il motivo per cui in
determinate situazioni i lavoratori non hanno avuto un comportamento corretto,
sia di modificare tali comportamenti.
Un nuovo approccio alla gestione dei rischi deve necessariamente
mettere al centro il concreto coinvolgimento dei lavoratori, con le loro
esperienze e competenze, anche a costo di una totale revisione degli attuali
processi lavorativi.
[4] Charles Vincent, Patient safety,
Esse Editrice, 2007.
[5] Giovanni
Berlinguer, La salute nelle fabbriche, Bari, De Donato, 1969.
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