venerdì 24 luglio 2015

Il Medico Competente deve "collaborare" alla Valutazione dei rischi?


Pubblichiamo un articolo tratto da  “ Articolo 19” n. 03/2014, bollettino di informazione e comunicazione per la rete di RLS delle aziende della Provincia di Bologna realizzato dal   SIRS  (Servizio Informativo per i Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza) con la collaborazione di vari soggetti istituzionali provinciali (Provincia di Bologna, AUSL, INAIL, DPL, organizzazioni sindacali, ecc...).
L'articolo, scritto dal Dott. Leopoldo Magelli, cerca di far chiarezza sull'interpretazione dell' 25 del D.Lgs 81/2008 che prevede che il medico competente “collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi”. Ad aiutare questo lavoro di chiarezza torna utile la Commissione per gli interpelli che risponde alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri - Protocollo 37/006232/ MA007.A001 - art. 12 D.Lgs. 81/08 e s.m.i. con l'interpello n. 5/2014 contenente risposta del 13 marzo 2014. 



Come è noto, l’art. 25 del D.Lgs 81/2008 prevede che il medico competente “collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all’attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro. Collabora inoltre alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di “promozione della salute”, secondo i principi della responsabilità sociale”. Questo articolo prelude a quanto previsto all’art. 29, comma 1 , dello stesso Decreto: “ Il datore di lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, nei casi di cui all’articolo 41” (il 41 è l’articolo che prevede in quali casi della essere eseguita la sorveglianza sanitaria). 


Evidentemente i termini “collabora” e “ collaborazione” non risultano completamente chiari, o così almeno ha ritenuto la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, che ha richiesto, tramite l’istituto dell’interpello, cosa si debba in concreto intendere con tali espressioni.
La Commissione per gli Interpelli, in data 27 marzo 2014, si è così pronunciata (Interpello N. 5/2014):
1) Innanzi tutto fa rilevare come l’attività di collaborazione, già prevista nel D.Lgs 626/94 venga estesa ed ampliata dal D.Lgs 81/2008 riguardando anche la programmazione della sorveglianza sanitaria, la formazione e informazione ai lavoratori per la parte di competenza del MC, l’organizzazione del servizio di primo soccorso. Ciò fa assumere al MC un ruolo di maggiore rilevanza nel sistema organizzativo della prevenzione in azienda.
2) Per meglio chiarire tale ruolo, la Commissione riporta anche un passaggio di una sentenza della Corte di Cassazione (n. 1856 del 15 gennaio 2013), che testualmente afferma che al medico competente “non è affatto richiesto l’adempimento di un obbligo altrui quanto, piuttosto, lo svolgimento del proprio obbligo di collaborazione, espletabile anche mediante l’esauriente sottoposizione al datore di lavoro dei rilievi e delle proposte in materia di valutazione dei rischi che coinvolgono le sue competenze professionali in materia sanitaria. Viene così delimitato l’ambito degli obblighi imposti dalla norma al “medico competente”, adempiuti i quali, l’eventuale ulteriore inerzia del datore di lavoro resterebbe imputata a sua esclusiva responsabilità penale.
3) Ne consegue che, anche se la valutazione dei rischi è un obbligo non delegabile del datore di lavoro il MC è obbligato a collaborare, all’effettuazione della valutazione dei rischi, sulla base delle informazioni ricevute dallo stesso datore di lavoro. Le suddette informazioni il MC le riceve, tuttavia, non solo dal datore di lavoro, come previsto dall’art. 18, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008, ma le acquisisce anche di sua iniziativa, attraverso l’adempimento degli obblighi sanciti dall’art. 25 del decreto in parola. In particolare il medico competente può dedurre le informazioni attraverso, per esempio, due attività fondamentali, di seguito indicate. Tali attività sono:
- la visita degli ambienti di lavoro: nel corso del sopralluogo il medico competente prende visione del ciclo produttivo, verifica le condizioni correlate ai possibili rischi per la salute presenti nelle specifiche aree, interagisce con il datore di lavoro e/o con l’RSPP, dialoga con i lavoratori e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, laddove presenti
- la sorveglianza sanitaria: elementi utili allo scopo sono forniti dalla cartella sanitaria.
Alla luce di tutte le considerazioni precedenti, la Commissione ritiene che l’obbligo di “collaborazione” vada inteso in maniera attiva, e questo è un passaggio di importanza fondamentale: il MC prima di redigere il protocollo sanitario deve avere una conoscenza dei rischi presenti e per far ciò deve concretamente collaborare alla valutazione dei rischi .
La Commissione precisa anche un altro aspetto di notevole rilevanza: qualora il medico competente sia nominato, dopo la redazione della valutazione dei rischi, subentrando ad un altro medico competente, deve provvedere ad una rivisitazione della valutazione stessa previa acquisizione delle necessarie informazioni da parte del datore di lavoro e previa presa visione dei luoghi di lavoro, per gli aspetti di competenza.
Il parere della Commissione si conclude ricordando che l’eventuale mancata collaborazione del medico competente può essere oggetto di accertamento da parte dell’organo di vigilanza e sottolineando che il datore di lavoro deve richiedere la collaborazione del MC alla valutazione dei rischi sin dall’inizio del processo valutativo, a partire dalla scelta dei metodi da adottare per la valutazione dei vari rischi.

L'ABBIGLIAMENTO DI LAVORO E' CONSIDERATO DPI?


Pubblichiamo di seguito un interessante articolo, tratto dalle pagine internet di amblav.it, che si occupa degli abiti di lavoro; l'articolo nasce in seguito ad una recente sentenza della Corte di Cassazione. Con questa sentenza viene ribadito che il datore di lavoro deve provvedere alla fornitura di dispositivi di protezione individuale adeguati e deve garantire la manutenzione periodica compresa la pulizia ed il lavaggio. La sentenza ribadisce che la disciplina legale non può essere derogata da normative collettive o da patti individuali e che, quindi, non poteva essere posto a carico dei lavoratori il lavaggio degli indumenti protettivi anche se previsto da un accordo interno dietro compenso. Nel ricorso si assiste al tentativo di dimostrare che gli indumenti rientranti nell’accordo interno non costituiscono dispositivo di protezione individuale ma solamente indumento protettivo degli abiti personali. La Corte di Cassazione respinge tale tesi sostenendo che nella sentenza impugnata era già stato dimostrato che gli indumenti erano inequivocabilmente dispositivi di protezione individuale. Su questo aspetto riportiamo un commento di Virginio Galimberti, presidente della sottocommissione DPI dell’UNI.
Galimberti: “Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte di Cassazione per chiarire al datore di lavoro la differenza gestionale che esiste tra l’indumento da lavoro vero e proprio e l'indumento da lavoro destinato a proteggere il lavoratore da un rischio (sia esso minore o rischio di morte o di lesioni a carattere permanente) e che obbligatoriamente deve essere classificato come Dispositivo di Protezione Individuale (DPI). Visti i numerosissimi episodi che continuano ad evidenziarsi nel tempo, rimango meravigliato della disinformazione che regna nella categoria dei datori di lavoro oltretutto anche appartenenti a realtà lavorative non di poco conto. Tale disinformazione, oltre alla mancanza di cultura specifica sull’argomento e la scarsa voglia di farsela, potrebbe essere imputabile anche alla legislazione vigente in cui ricorre spesso la distinzione tra “indumento da lavoro” e “indumento di protezione (o protettivo)” o “Dispositivo di Protezione Individuale (DPI)”. In particolare faccio riferimento a diversi punti citati nel D.Lgs 81/2008 quali, ad esempio quello riportato nell’ 239 (Titolo IX Sostanze pericolose – Capo II Cancerogeni e mutageni) dove si legge: d) la necessità di indossare e impiegare indumenti di lavoro e protettivi e dispositivi individuali di protezione ed il loro corretto impiego. E ancora, sempre al titolo IX (Sostanze pericolose – Capo III Protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto) dove viene riportato: f) siano messi a disposizione dei lavoratori adeguati indumenti di lavoro o adeguati dispositivi di protezione individuale; g) detti indumenti di lavoro o protettivi restino all’interno dell’impresa. Essi possono essere trasportati all’esterno solo per il lavaggio in lavanderie attrezzate per questo tipo di operazioni, in contenitori chiusi, qualora l’impresa stessa non vi provveda o in caso di utilizzazione di indumenti monouso per lo smaltimento secondo le vigenti disposizioni; h) gli indumenti di lavoro o protettivi siano riposti in un luogo separato da quello destinato agli abiti civili; Per quanto riguarda i DPI, già a fronte del D.Lgs 626/94, a causa dei parecchi dubbi interpretativi in merito alla manutenzione degli indumenti di lavoro quando sono destinati ad assolvere ad una funzione di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, è stata emanata la circolare esplicativa n.34 del 29 aprile 1999 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale (Circolare rafforzativa dei contenuti dell’art. 43 dello stesso decreto – oggi art. 77 del D.Lgs 81/2008 di pari oggetto)”.

FONTE: amblav.it